Nei giorni scorsi è apparsa nella stampa italiana una notizia curiosa: la nascita in Giappone, ad inizio anno, del movimento KuToo (dalle parole giapponesi “kutsu” – scarpe – e “kutsuu” – dolore- con richiamo al movimento MeToo), ad opera della scrittrice freelance Yumi Ishikawa, che ha lanciato la campagna di protesta “Mai più al lavoro con i tacchi alti”.
Anche se di per sé i tacchi alti possono essere ritenuti belli ed eleganti, migliaia di donne giapponesi si sono ribellate alla pratica, molto diffusa nel paese, che vede numerose aziende imporre di fatto alle ragazze di indossare scarpe con i tacchi alti, per essere assunte e poi per poter lavorare. E ciò anche in situazioni che comportano lo stare in piedi per molte ore, percorrere lunghe distanze, fare le scale o trasportare pesi più o meno importanti, durante i viaggi in aereo o in treno. Arrivando persino a forme di discriminazione per chi non intende adeguarsi a questa pratica. L’iniziativa avviata dalla scrittrice ha avuto migliaia di condivisioni sui social e spinto molte donne a condividere le foto dei loro piedi con le ferite procurate dalle scarpe utilizzate.
Il caso è diventato politico, dal momento che funzionari governativi hanno incontrato Ishikawa, la quale si aspetta che il governo accolga le richieste del “KuToo”: “L’introduzione di una legge che vieti ai datori di lavoro di costringere le donne ad indossare tacchi alti come discriminazione o molestia sessuale”.