Cosa accade quando, nell’ambito di un rapporto di lavoro, un lavoratore, sulla base delle sue conoscenze, competenze ed abilità creative, e utilizzando le risorse messe a disposizione dal proprio datore, effettua delle invenzioni, più o meno importanti, ma idonee ad essere “sfruttate” industrialmente dall’impresa, che ne guadagna in termini di sviluppo tecnologico e capacità concorrenziale, talora anche in maniera piuttosto significativa?

Il nostro ordinamento norma specificamente tali situazioni con gli artt. 2590 del Codice Civile e l’art. 64 del CPI (Codice della Proprietà Industriale D.Lgs. n. 30/2005), prevedendo sostanzialmente delle deroghe al principio generale secondo cui l’autore materiale dell’invenzione acquista il diritto al brevetto ed ai diritti patrimoniali conseguenti, riconducendo invece tali diritti all’impresa datrice/committente.

Il presupposto per l’applicazione di tali norme è che sussista un rapporto di lavoro subordinato o autonomo, anche nella forma del contratto di collaborazione coordinata e continuativa, e che l’invenzione industriale, oltre ad implicare specifica attività di inventiva da parte del lavoratore, presenti i requisiti di novità, industrialità, brevettabilità e liceità.

Per tutto questo al lavoratore/inventore spetta proprio nulla? Fermo restando che il lavoratore ha sempre il diritto di essere riconosciuto quale autore dell’invenzione, sotto il profilo economico-patrimoniale la norma stessa distingue fra tre tipologie di invenzioni:

“di servizio o di lavoro”: l’invenzione costituisce l’oggetto stesso del contratto di lavoro ed è a tale scopo retribuita (anche senza conseguirla), attraverso idoneo inquadramento contrattuale ed adeguato trattamento retributivo complessivo; in tal caso nessun riconoscimento ulteriore spetta di diritto al lavoratore; al datore appartengono i diritti economici di sfruttamento.

“di azienda”: l’invenzione non è dedotta in contratto, ma essa scaturisce comunque nell’esecuzione o adempimento del rapporto di lavoro; non essendo prevista una specifica retribuzione a compenso dell’attività inventiva (e comunque il trattamento economico complessivo non è ritenuto idoneo a compensarla) al lavoratore spetta, in tal caso, il cosiddetto “equo premio”; permangono al datore i diritti economici.

“occasionale”: l’invenzione avviene in costanza di rapporto e rientra nel campo di attività del datore, ma senza alcun collegamento con l’attività lavorativa (mansioni) del lavoratore; i diritti economici di sfruttamento e morali spettano al lavoratore, mentre il datore dispone di un diritto di opzione per l’uso esclusivo o meno dell’invenzione o per l’acquisto del brevetto.

Quello di corrispondere l’equo premio è un vero e proprio obbligo giuridico da parte del datore, il cui ammontare (in accordo o in base a valutazione equitativa del giudice) andrà determinato tenendo conto dell’importanza dell’invenzione (potenzialità di sfruttamento economico) più che del valore commerciale della stessa, delle mansioni svolte, della retribuzione percepita dal lavoratore/inventore, nonché dal contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione del datore. Il diritto del lavoratore all’equo premio si prescrive in 10 anni.

Sotto l’aspetto operativo per i datori è altamente consigliato sia in fase di assunzione che successiva in corso di rapporto, operare una accurata analisi delle mansioni dei lavoratori potenzialmente foriere di invenzioni, in modo da valutare e definire le condizioni di spettanza del premio ed i criteri di quantificazione dello stesso, e così prevenire possibili futuri contenziosi.

Per completezza informativa si precisa che esulano dalla presente trattazione le invenzioni dei ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca, specificamente normate all’art. 65 CPI, e le realizzazioni di creatori/sviluppatori di software, che trovano la loro compiuta disciplina nella legge sul diritto d’autore (L. 633/1941).