Per l’installazione di un impianto di videosorveglianza all’interno degli ambienti di lavoro, il previo consenso scritto ottenuto dai singoli lavoratori, non è in alcun modo idoneo a sostituire l’accordo sindacale o, in mancanza di questo, l’autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro, come previsto dall’art. 4 L. 300/1970. Ne consegue una responsabilità penale del datore di lavoro (nel caso di specie il titolare di un negozio è stato condannato a tremila euro di pena pecuniaria).
Il principio è consolidato. L’installazione di apparecchiature di videosorveglianza per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, ma dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, deve essere sempre preceduta da un accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori, o se l’accordo non è raggiunto o in assenza di queste, dalla richiesta di una autorizzazione da parte della Direzione Territoriale del Lavoro (che imporrà l’osservanza di una serie di indicazioni/prescrizioni). Elementi di tutela volti alla difesa di un interesse preminentemente collettivo, in alcun modo delegabile a singoli soggetti. Mancando questi elementi l’installazione è illegittima e penalmente sanzionata, quand’anche vi sia un consenso preventivo scritto o in qualsiasi altra forma da parte dei singoli lavoratori. La procedura non contempla tale possibilità verso soggetti ritenuti la parte debole del rapporto di lavoro. Sentenzia infatti la Corte, “basterebbe al datore di lavoro fare firmare a costoro, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con cui accettano l’introduzione di qualsivoglia tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato, perché ritenuto dal lavoratore stesso, a torto o a ragione, in qualche modo condizionante l’assunzione”
Sulla stessa linea un’altra sentenza di poco precedente, la n. 50919 del 17 dicembre 2019.