Con la sentenza evidenziata la Corte di Cassazione, trattando la questione relativa alle dimissioni di un dipendente (nel caso specifico un dipendente pubblico, al quale non si applica la procedura telematica prevista per il settore privato), ha affermato che il giudice è tenuto ad accertare che la decisione del lavoratore di lasciare il posto di lavoro sia priva di qualsivoglia condizionamento e sia espressione della sua effettiva volontà in tal senso. Perciò l’annullamento delle dimissioni e conseguente richiesta di riammissione in servizio (non accolta dal datore) non presuppone la presenza di una integrale perdita della capacità intellettiva ma è compatibile anche con un temporaneo turbamento psichico, tale da alterare la formazione di una volontà cosciente. Sul punto proponiamo un estratto della sentenza molto chiarificatore:
“ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e volere (quale prevista dall’art. 428 cod. civ.) costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venir meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere. Peraltro, laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato, il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinunzia del posto di lavoro – bene protetto dagli artt. 4 e 36 della Cost. – sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto stesso”.